Parlare di verità a teatro, nella finzione del palcoscenico e perlopiù in una commedia di impianto semplice e leggero, è a prima vista un’operazione paradossale e senza speranza di riuscita. Paradossale senza dubbio, ma per nulla fallimentare: lo ha dimostrato Rosario Lisma portando in scena una pièce coraggiosa e dalla trama mirabilmente costruita, mai avara di sorprese, richiami e riprese. Nessuno si aspettava che si potessero trascorrere due ore abbondanti senza pause nello scarno salotto-cucina di un giovane parroco di provincia, dove compaiono solo quattro persone e si respira l’aria di un paesello qualunque! E se l’ambientazione offre per sua natura l’ispirazione alla più autentica comicità famigliare, inattesa è senz’altro la profondità tematica e la tensione paradossica costruita sul palco. Paradosso fral’esigenza della verità e la convenienza della “bugia a fin di bene”, paradosso fra la genialità mentale di un uomo e la sua prigionia in un corpo spastico, paradosso fra la finzione teatrale e la verità che vi si discute e vi si celebra. A convincere è il binomio semplicità-profondità, apparente antitetico ma effettivamente riuscito grazie al prodigioso contributo della recita da applausi: i quattro attori hanno saputo calarsi con naturalezza nel proprio ruolo e sostenere un’intensità notevole, dimostrando chel’arduo compito di condurre uno spettacolo di scarna ambientazione e scenografia può essere assolto con maestria. Tutto questo davanti al pubblico entusiasta di Locarno, che ha goduto della frizzante comicità da canonica provinciale e ha scoperto l’intensità che anche gli uomini più comuni sanno infondere nel loro credo, nelle loro speranze e nel loro quotidiano confronto con la verità.
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