Recensione

Critica teatrale "Il malato immaginario"Vai alla home
Matteo D'Anna

Ne il malato immaginario messo in scena il 17 di febbraio del 1673 il suo autore, che interpretava nonostante il suo pessimo stato di salute anche il ruolo del protagonista (il malato immaginario), compare per l’ultima volta in pubblico, siccome morirà poche ore dopo. Il nome dell’autore è Jean-Baptiste Poquelin, ma la storia (e non solo del teatro) lo conosce con il suo pseudonimo: Molière. Speriamo che il malato immaginario che ha recitato magistralmente la sua parte a Locarno 352 anni e 36 giorni più tardi, ossia Gioele Dix, non segua (fino in fondo) le orme dell’autore; infatti lo spettacolo è stato fin da subito vivace e ben ritmato, la scenografia essenziale quanto pulita, gli attori perfettamente calati nelle rispettive parti; ciò ha portato come scontata conclusione un alto gradimento da parte del pubblico, ragion per cui scongiuriamo impedimenti a tutto il cast, poiché un così piacevole spettacolo deve essere portato in scena molte altre volte.

Si è già detto della prestazione senza dubbio positiva di Gioele Dix, ma anche tutti gli altri personaggi sono stati molto ben interpretati, ad esempio Anna Della Rosa, mentre interpretava Tonina, la domestica infaticabile, rude il giusto e inaspettatamente padrona della situazione che si occupa del povero malato, ha senza dubbio colpito per la padronanza della scena e delle battute che ha mostrato. Eppure il malato immaginario non è facile da mettere in scena, l’opera infatti è anche portatrice di un messaggio molto profondo, che bisogna stare attenti a mantenere, poiché buona parte del fascino di questa pièce sta nella sua lettura meta-rappresentativa: Molière visse in Francia nel XVII secolo, e il suo messaggio sarà anche quello degli Illuministi: la capacità e la necessità per un uomo di pensare con la propria testa, evitando le opinioni indotte da altri, così come la volontà di non voler sottostare alle prepotenze altrui sono gli sviluppi mentali che permettono agli uomini di prendere possesso delle facoltà della loro mente.

E il messaggio di Molière, grazie alla regia di Andrée Ruth Shammah, è rimasto intatto, e viene presentato allo spettatore nella sua completezza: quando un uomo ascolta prima gli altri di sé stesso, e agisce di conseguenza, non può non accadere che qualcuno sfrutti questo suo stato di inferiorità mentale per prendere le redini delle azioni del primo, ma se una persona ha pieni poteri su un’altra, allora quest’ultima non è libera di fare ciò che vuole. Ma il percorso per diventare liberi non è facile, il nostro malato immaginario, ad esempio, non diventa libero di sua spontanea volontà, perché è molto più facile sottoporsi passivamente a qualsiasi terapia piuttosto che agire usando la propria testa. Non è padrone della sua mente, figuriamoci se lo è del suo corpo: il malato vive in una sola stanza nella sua stessa casa, con il carrello delle sue medicine, con i suoi colpi di tosse, veri o immaginari che siano, la sua poltrona e qualche altra sedia intorno. Ci vuole l’intervento risolutore del fratello, tale Beraldo, per far ”guarire” il presunto infermo, infatti tenta di convincerlo che egli non ha nessun male in sé, se non quello della dipendenza da un’altra persona, riuscendo, grazia a un’abile serie di ribaltamenti, comici e inaspettati, a convincere il malato che gli conviene divenire dottore, così da poter curare sé stesso al meglio; ed ecco l’ultimo messaggio di Molière: essere liberi è giusto, ma il confine con la presunzione è poco distante, e quel confine non deve essere oltrepassato.

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